Papaveri

Un colore, un sapore, un odore.

Tutto è in grado di inviare al cervello gli impulsi necessari a scatenare i ricordi. Stamattina è stato sufficiente il maritozzo alla panna acquistato mentre “lei” mi diceva che le ricordava la latteria del nostro paese quando eravamo bambine. Ecco, nonostante il peso del sonno sui miei occhi, è bastato quell’accenno per risvegliare all’istante la “pazza di casa”. Vorrei dirglielo, senza offenderla, che stavolta la sua presenza non è fondamentale perché tutto quello che mi sta passando per la mente è vita vera, ma so già che sarebbe inutile. Se ha deciso di intervenire lo farà. Ed io come sempre le lascerò il giusto spazio per colorare i miei ricordi.

La storia inizia con fiori di papaveri, che non erano mai solo rossi. Continuo a chiedermelo tutte le volte in cui passeggio su un prato dove siano finiti quelli di altri colori. Ci sono tre bambine sedute a gambe incrociate, i calzoncini corti e la pelle nuda rassegnata a farsi solleticare dall’erba. Hanno le mani piene di boccioli di papavero ancora chiusi, puoi immaginarle mentre tutte tese e concentrate lasciano scorrere piano il pollice e il medio sul verde rugoso dell’esterno, fino a far apparire il colore dei petali. Era un gioco, uno dei tanti capaci di riempire pomeriggi assolati che sembravano fatti di nulla e che invece contenevano l’universo intero. Indovinare il colore del papavero prima che apparisse era un passatempo che si tramandava da generazioni. Spesso il fiore era rosso, ma a volte magicamente bianco, oppure se davvero eri fortunata, addirittura rosa. Non si vinceva nulla, eppure il brivido dell’incertezza che precedeva la scoperta del colore mi scorre ancora sulla pelle, così come mi sono rimasti incastrati negli occhi i nostri sorrisi.

Credo possa essere stata la perfezione di un momento simile a far nascere in noi il desiderio di infrangere le regole. Eravamo piccoli spiriti liberi, padrone di una natura talmente incontaminata e pura da non spaventare neppure la mamma più apprensiva. La nostra libertà però aveva confini ben delineati, anche se immaginari. Potevamo muoverci in assoluta assenza di controllo all’interno di un certo perimetro, a dire il vero piuttosto vasto, ma non oltre. Ma so per certo che vi erano momenti in cui la nostra grande libertà non ci sembrava abbastanza. Volevamo vedere il mondo.

Avverto ancora la morbidezza del bocciolo fra le dita, la meraviglia dei petali rosa che sbucavano timidi e sopra a tutto l’eccitazione di una decisione che avrebbe potuto portare qualche conseguenza imprevedibile. Non so ricostruire con precisione il motivo scatenante, forse la ricerca di altri fiori, oppure di una pianta particolare che non riuscivamo a trovare. Ciò che ricordo sono i nostri passi che si allontanavano dal conosciuto fino a farci superare quel confine immaginario che era stato innalzato per proteggerci. Eravamo perfettamente consapevoli di infrangere una regola fondamentale, ma anche incredibilmente fiere e fiduciose di poter tornare a casa non viste e in tempo per ricostruire l’ordine del nostro piccolo mondo. Ma come diceva sempre la nonna, “il diavolo fa le pentole ma non i coperchi”.

Qualcosa deve essere andato storto perché mi rimane nel cuore il sapore di rimproveri infiniti che solo per un attimo però sono riusciti a rovinare l’emozione della nostra impresa e il brivido di quella che, ne sono certa, è stata per noi tre la prima grande, ma innocente, trasgressione. La latteria del nostro paese non esiste più da tanto, così come fatico a trovare nei campi papaveri bianchi e rosa.

Noi però siamo ancora noi, esattamente come allora.

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