Il narratore

Quella sera Federico aveva la faccia dolorante, a causa di tutti i sorrisi finti che aveva dovuto fare quel giorno. Era davanti al computer e stava pensando di comprare una maschera su internet e tenerla addosso fissa, al posto della sua vera faccia. Si era allenato tanto per quei sorrisi e, come un attore, aveva imparato la propria parte. Stava per ore davanti allo specchio quand’era ragazzo, provava e allenava il suo volto per non arrossire, per non dare cenni di cedimento e per far in modo che la sua risata non risultasse mai, neanche minimamente, forzata. Una volta era riuscito perfino a piangere recitando, ed era certo che sarebbe stato in grado di riuscirci ancora.

Faccia finta

… stava pensando di comprare una maschera su internet e tenerla addosso fissa, al posto della sua vera faccia.

“Sei sceso dal cielo” così si diceva ogni giorno per poter affrontare l’ufficio e riuscire a sopportare quegli idioti dei colleghi che finivano sempre per deluderlo o stancarlo. Lui era incredibilmente più bravo di loro, faceva parte di una più elevata categoria. “Per poter sopravvivere devo riuscire a dimenticare certe cose” era ciò che ripeteva piano tra se, con la voce bassa e senza farsi sentire, quando li vedeva sbagliare o comportarsi da “minorati mentali” (questo il modo in cui li chiamava lui)! Il suo limite era la sua croce: non pensava di poter sbagliare, era convinto di fare tutto bene e di avere sempre ragione (che assurdità).

Federico era “un santo” e aveva davvero tanto coraggio a contattare quei clienti incredibilmente fastidiosi e ad avere a che fare con quei fornitori inadeguati con cui si trovava continuamente a discutere. Non era bravo a “sopportare” e questo “sopportare” a cui era costretto, gli faceva perdere la pazienza e quando perdeva la pazienza succedeva sempre un disastro.

Una volta aveva tirato un bicchiere d’acqua in faccia ad un collega, durante una riunione. Federico non ci aveva dato importanza, era stato un gesto automatico e, secondo me, se gli avessimo chiesto dettagli sul fatto il giorno dopo, non se ne sarebbe assolutamente ricordato. Per lui era stata senz’altro una cosa normale ed erano stati gli altri dipendenti che quel giorno, per poter sopravvivere, avrebbero voluto dimenticare, ma non ci erano mai riusciti.

Aveva anche detto “oca” tante volte: alla segretaria, alla donna delle pulizie, alla cameriera, a tutte le donne in generale… Ripeteva continuamente quel sostantivo dentro la sua testa, senza però farlo uscire dalla bocca, non per rispetto, figuriamoci,  per principio (la parola “oca” gli era sempre sembrata inadatta al linguaggio perfetto e autorevole di cui era dotato). Ma durante un pomeriggio strano e stanco di aprile, la parola “oca” era uscita come un insulto dalle sue labbra, facendo tremare le finestre, sollevare lo sguardo ai suoi collaboratori e sconvolgere la collega demoralizzata a cui l’offesa era stata diretta. Anche quella volta, il giorno dopo, Federico aveva già dimenticato. Le cose poco rilevanti non avevano abbastanza valore per rimanergli impresse nella testa; lo spazio presente nel suo cervello doveva essere riempito soltanto da ciò che era ritenuto importante e indispensabile per il lavoro. Dedicava ad esso anima e corpo, stava in ufficio dieci ore al giorno, senza fare mai pausa; se qualcuno l’avesse cercato, lui sarebbe stato sempre lì, disponibile e pronto, fisso al proprio posto e con il cellulare sempre in tasca, sempre reperibile, perché lui era l’unica persona al mondo, che potesse essere definita: indispensabile.

Era responsabile di un’azienda di frutta e verdura, la grandissima “Vita&Sole”, che riforniva tutti i negozianti, i ristoratori e i fruttivendoli nel raggio di tanti chilometri, che numericamente non vi saprei dire. Lui era il “responsabile”, vi dicevo, a lui toccava l’organizzazione del personale, controllare gli ordini, seguire il magazzino. Dipendevano da lui la logistica, il contatto con i fornitori e la scelta delle pubblicità… a lui non interessava che i collaboratori e i colleghi con cui aveva a che fare (e che in realtà non era lui a retribuire, visto che il capo dell’azienda era un gruppo di cinque soci) decidessero da soli praticamente tutto e che lui dovesse soltanto supervisionare. Quello che pensava e sosteneva, era che fosse soltanto “sua” la responsabilità e che, in realtà, tutti gli altri sette quadri direttivi fossero lì soltanto a scaldare con il sedere una sedia, che non meritavano di avere.

Qualcuno dei suoi sottoposti però sosteneva che fosse lui (proprio il responsabile) quello ritardato perché per fare un lavoro, fatto già in precedenza da altri, ci metteva il doppio del tempo e questa non poteva essere una qualità positiva, ma al contrario era effettivamente una carenza di capacità. Forse nell’ufficio si “trastullava” invece che lavorare, taluni si chiedevano; magari stava su Facebook continuamente; oppure postava video in siti porno, si sosteneva; o, più probabilmente, se ne stava seduto a studiare un nuovo modo per far piangere o far arrabbiare qualcuno (tutti avevano notato quanto gli desse gusto arrivare a questo risultato).

La realtà invece era molto più semplice di quanto si potesse immaginare; Federico se ne stava lì continuamente perché davvero non aveva altro da fare. Tutto il resto del personale aveva una famiglia da cui aveva voglia di ritornare, mentre lui, pur avendone una, di voglia non ne aveva ed i figli non gli stimolavano alcun comportamento di paternità. Stava in ufficio, a fare quel lavoro che era anche la sua passione, controllava e ricontrollava tutti i lavori fatti dagli altri, visto che non si fidava di nessuno, anche quelli che non erano di sua competenza perché era soltanto questo “controllare”, che riusciva a farlo sentire davvero bene. Era sempre stato bravo nella sua mansione, non posso negarlo. Era preciso, preparato e disposto a lottare per imporre le proprie idee e i propri criteri di organizzazione, che erano davvero buoni, utili, brillanti e capaci a risolvere anche quei problemi difficili, che nessun altro aveva saputo affrontare. Ci metteva tanta passione e posso addirittura dire che amasse il lavoro più di quanto amasse se stesso, più di quanto amasse qualsiasi altra persona al mondo (non che conoscesse sul serio questo sentimento, visto che l’unica persona che l’avesse mai amato e che lui avesse amato a sua volta fu la madre, tanti anni prima, quando quest’ultima era ancora in grado di intendere e volere).

Al mattino, passando per i corridoi, nascosto dietro al ghigno della sua vera faccia, teneva lo sguardo fisso davanti a se e non salutava nessuno; tranne quelle rare volte in cui, di notte, era riuscito a “stare” con Anita. La moglie non gliela dava da troppo tempo e in più, ultimamente, gli stavano sul cazzo quasi tutte le donne. Così aveva deciso di usare lei per sfogare i propri istinti, quella stupida centralinista, visto che era davvero brava con la bocca. Anita, durante una cena di Natale, gli aveva sussurrato in un orecchio che lo aveva trovato incredibilmente “simpatico”. Era detto con ironia, ma quest’uomo ne rimase comunque colpito: quello era un complimento che mai nessuno gli aveva fatto.

Era un uomo distinto e si abbassava al livello degli altri raramente. Non amava i convenevoli e iniziava le telefonate senza salutare; mentre le mail e i messaggi partivano, solitamente, con domande dirette, per venire subito al punto, oppure con frasi poco gentili che, la maggior parte delle volte, iniziavano con le parole “pensavo/ volevo/ dicevo/ credevo…” e terminavano con un’offesa, diretta o indiretta, che sottolineava, ovviamente, un errore del destinatario del messaggio. Non chiedeva niente sulla salute o sulla vita privata degli altri perché, effettivamente, niente gli interessava e anche quando la segretaria della direzione aveva fatto gli esami di controllo per il tumore al seno che stava combattendo, era stato l’unico, tra tutti, a non interessarsi affatto delle risposte che aveva avuto. Neanche durante il giorno, di cui vi sto narrando adesso, passati quasi due mesi dai risultati degli esami, non avrebbe saputo dire se fosse fuori pericolo, oppure no quella donna, di cui ricordava soltanto il nome (visto che per lui, ricordarlo, era un dovere professionale).

Davanti al computer, quella sera, insieme alla faccia finta di cui vi parlavo, ordinò qualcos’altro, che gli sarebbe già arrivato l’indomani, con un piccolo supplemento per le spese di spedizione, ma di aspettare non si poteva neanche parlare.

Aveva organizzato tutto nel dettaglio, così come aveva sempre fatto, con i suoi soliti schemi Excel e le sue “fette di torta”, che ormai più nessuno voleva vedere. Era sempre stato “strano” Federico, fin da quando era un bambino. Spegneva e accendeva la luce mille volte prima di uscire di casa, provava a chiudere e riaprire l’auto mille volte, prima di potersi allontanare da essa, sistemava la scrivania secondo non so quale precisa logica o direttiva, lasciando lo stesso spazio tra una matita e l’altra; matite che dovevano avere la stessa punta, consumate alla stessa lunghezza.

alla stessa distanza

… matite che dovevano avere la stessa punta, consumate alla stessa lunghezza.

Una volta aveva disorientato la signora delle pulizie perché l’aveva difesa, davanti ad uno stupido cliente cafone; allora lei l’aveva ringraziato cento volte, pensando bene di lui, mentre Federico, in quel momento, stava semplicemente pensando che la signora in oggetto, fosse fondamentalmente un oggetto e che essendo di sua proprietà meritasse di essere difesa (così come avrebbe difeso la propria auto, se qualche stupido minorato gliel’avesse soltanto sfiorata con un dito).

Un’altra volta Sabrina dell’amministrazione aveva raccontato a tutti dell’interesse esagerato che Federico le aveva dimostrato per l’evento di beneficenza che lei stava preparando. Erano stati più di mezz’ora a parlare, lui le aveva fatto domande, dato consigli e lei si era sentita tanto speciale; ci sarebbe rimasta davvero male scoprendo che, in realtà, quel giorno il suo superiore fosse soltanto arrivato in anticipo, per un errore di registrazione fatto in agenda. Non gli interessava quindi né di lei, né del suo evento e nemmeno della beneficenza; voleva soltanto passare quella mezz’ora di tempo, visto che non aveva nessun giornale da sfogliare, nient’altro da fare e, soprattutto, voleva far pensare alle altre persone presenti in sala d’attesa, di essere un responsabile gentile e interessato.

Federico aveva letto un libro per studiare il linguaggio del corpo e questo l’aveva convinto di essere in grado di capire tutti. Sapeva, ad esempio, che “incrociare le braccia” era un segnale di difesa, a fronte di uno stato d’ansia ed era quindi per lui quello il momento giusto per attaccare e mettere la persona, con cui stava parlando, ancora più in difficoltà. Quel “gioco” però, durante quel particolare giorno di cui vi sto raccontando, non funzionò e la sua “vittima” divenne “carnefice”, rispondendo a tono ai suoi attacchi e facendo notare a tutti che il responsabile, probabilmente per la prima volta in vita sua, fosse in torto e non avesse affatto ragione.

Era cresciuta così in lui una rabbia incredibile. La stessa rabbia che, per intenderci, proveresti tu mio caro lettore, se davanti alla casa in campagna dei tuoi sogni, appena comprata e con un panorama sensazionale di colline e vigne, improvvisamente qualcuno decidesse di costruire una superstrada o una pompa di benzina; la stessa rabbia che proveresti tu mio caro lettore, se durante il tuo viaggio in California tanto desiderato, la tua auto decidesse gentilmente di fermarsi proprio nel bel mezzo della Death Valley, lasciandoti solo in mezzo al nulla. Federico, come al solito, vedeva soltanto quello che voleva vedere e non era stato in grado di valutare e capire veramente la persona che aveva di fronte. E così Barbara, la disegnatrice del marchio, delle etichette e di tutte le pubblicità della “Vita&Sole”, tanto carina, gentile, fragile, emotiva, giovane, semplice e tanto cordiale, l’aveva corretto, umiliato, contraddetto, mortificato, sminuito, offeso, irritato e, infine, l’aveva schiacciato davanti a tutti!

Death Valley

Death Valley

Ed era stato probabilmente a causa di questa rabbia che Federico, preda di uno dei suoi soliti scatti d’ira, sbattendo i pugni sul tavolo e i piedi sul pavimento, aveva ordinato la faccia finta e un’arma automatica di ultima generazione.

Oppure la causa fu un’altra, in realtà non vi saprei dire, perché era di facili entusiasmi quest’uomo e, sinceramente, credo che tu possa immaginare, caro lettore, quanto fu grande per lui l’affronto notevole, di questa autrice che, pur raccontando di lui, decise di scegliere me, come protagonista del pezzo che ora stai leggendo. E, come un cane che abbaia mille volte, turbando il silenzio e la pace della notte, lei aveva turbato Federico e tutto il suo mondo, lo stesso mondo, che lei aveva creato per lui.

Quando si presentò in azienda il giorno dopo, con la faccia finta addosso ed un mitra in mano, tutti lo riconobbero e non ebbero affatto paura. In fondo se l’aspettavano da una persona come lui, strana e difficile, un gesto così estremo. Nemmeno Anita se ne stupì e, addirittura, il coordinatore dei trasporti, quella scena l’aveva già sognata e immaginata altre volte. Così, quando finalmente l’uomo mascherato iniziò a sparare, ci fu un gran rumore, ma nessuno riuscì a gridare, togliendogli in questo modo anche l’ultima soddisfazione.

Ed ora mio caro lettore, vorrai sapere cosa successe dopo e come andò a finire, ma io sono solo un narratore e su Federico non ho davvero nient’altro da dire.

FINE

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